domenica 16 ottobre 2016 | By: Unknown

Voce del verbo mare



Da bambina odiavo il mare. Annaspavo nell’acqua coi braccioli di Barbie e rispondevo “no” a tutti i bambini che mi chiedevano di giocare con loro, perché io non sapevo nuotare e loro sì. Mio padre mi teneva per la pancia, mi tirava le braccia, mi reggeva i piedi, diceva “dai, lasciati andare”, ma più lo diceva e più mi irrigidivo e diventavo pesante, pesantissima. Io coi miei trenta chili diventavo un macigno che andava sempre più a fondo. Non ho imparato a nuotare, da bambina.

Ma amavo i boschi. Le montagne che erano braccia enormi da stringere percorrendole, passo dopo passo, nel verde e nella pietra. Non mi riconoscevo nel mare, nelle onde che cancellavano le scritte sulla battigia, nella sabbia di mille e mille anni di rocce sgretolate intrappolate nell’attimo in cui si incastravano tra le dita dei miei piedi, così piccoli. Era nel bosco che ritrovavo le mie radici e me le avvolgevo intorno alla vita perché mi facessero da salvagente anche in città, nel traffico dei giorni veloci senza memoria.

Da ragazzina odiavo il mare. Tutti i ragazzi che ho avuto hanno cercato invano di insegnarmi a nuotare, e ciascuno di loro diceva “Io sarò quello che ci riuscirà”, e poi non ci è riuscito nessuno. E una parte di me ne è stata persino felice, dopo, quando quelle stesse persone sono uscite dalla mia vita. Non avevo imparato a nuotare, ed era stato meglio così. A nessuno di loro avrei mai voluto dover dire grazie per avermi insegnato il mare.

Ho imparato il mare in un giorno d’estate in cui l’acqua era così bassa che per bagnarsi davvero bisognava superare la boa. Ero sola, nel mare, immersa in questo elemento terribile e sconosciuto che per anni avevo evitato come si evitano le grandi sfide, i grandi amori, le grandi gioie. E ho scoperto che il mio corpo sapeva già nuotare, che per anni aveva amato il mare a distanza mentre io l’avevo temuto e che lui era già lì, sospeso a pelo d’acqua, quando io ero ancora chissà dove a credere di avere paura.

Dentro di me, tra i boschi che mi abitano, c’è adesso anche il mare. Ancora temo le sue furie, i contorni sterminati delle sue gioie e dei suoi dolori, i cambiamenti d’umore, la luce verde del porto quando annega nelle onde nere di notte. Ma c’è. Lo custodisco nelle tasche tra le monetine e i trucioli di tabacco, perché nessuno possa vederlo. Eppure nella giostra quotidiana della città, ferma al semaforo, tra i clacson e l’inchiostro dei giornali, nel grattare lo zucchero che rimane sul fondo della tazzina dopo il caffè, lo sento, come avessi una conchiglia appoggiata all’orecchio. Il rumore del mare.